Il cielo non ha sete Si sa, l’acqua sulle montagne del Gran Paradiso di sicuro non manca…

Ero lì, ritto in piedi su quella roccia montonata1, aspettando l’ombra dare il cambio all’ultimo sole di quel giorno caldo. Guardavo oltre gli scarponi, quelle striature rupestri lunghe, lasciate a ornamento di quella pietra ormai tonda, a memoria del ghiacciaio vissuto lì. L’acqua non arrivava ancora.

Il vallone di quell’angolo di Alpi era prevalentemente verticale, quindi roccioso e antico come solo le Alpi riescono a essere. Anche il mio mestiere era antico, forse a tal punto che non lo ricordavo più. Un angolo di Alpi così piccolo che qualcuno ne aveva voluto amplificare il nome con un aggettivo di grandezza e un sostantivo di magnificenza eterea. Quando l’ombra raggiunse e passò oltre il camino del rifugio, lasciai la roccia ancora calda per aprire quel rubinetto arido di un’acqua che non voleva arrivare. Un grosso tubo di plastica nera collegava la ripidità del torrente ad una vasca di decantazione, quasi sospesa tra le rocce più a valle, a mezza costa, scendendo quindi fino al rifugio. L’acqua non arrivava ancora. Si sa, l’acqua sulle montagne del Gran Paradiso di sicuro non manca; ma i problemi per me sorgevano, in quell’anno, proprio quando la montagna tossiva un temporale e si schiariva la voce con tuoni e fulmini che smuovevano l’immobilità dei versanti; allora i torrenti si gonfiavano in pochi minuti, grosse pietre accumulate lungo i canaloni proseguivano il loro viaggio verso valle, il terreno veniva eroso e trascinato via, l’acqua acquistava velocità e potenza. Così dopo ogni temporale o pioggia dovevo risalire la montagna fino al torrente a cercare di aggiustare le cose per riportare l’acqua al rifugio.
Ripristinata la presa non era detto che l’acqua arrivasse; alcune volte impiegava un giorno intero o più. In quei casi, lo stare a lungo senza acqua malgrado i torrenti fossero pieni e le cascatelle scendessero da ogni solco, mi trasmetteva un disagio enorme, come se la natura volesse sottolineare la mia vulnerabilità e impotenza. Perché alla fine è così, fino a che l’acqua scorre regolarmente nei rubinetti delle nostre case non ci rendiamo conto realmente di quale inestimabile bene prezioso sia. Così accadde a me, che passavo l’estate a lavorare tra i 2300 e i 2800 metri di quota. Il mio rifugio, o meglio, il casotto di sorveglianza dove prestavo servizio come guardaparco, era una struttura moderna e super attrezzata, con muri coibentati, doppi vetri, energia elettrica a pannelli solari, riscaldamento a legna, gas per cucina e acqua calda, strumentazioni ottiche all’avanguardia, radiotelefoni con Gps e palmari con programmi di ultima generazione; ma senza acqua vivere in quota per più giorni, dovendo lavorare, era pressoché impossibile, o, in ogni caso, molto problematico. Terminai la cena in fretta, sbrigai le ultime faccende di lavoro, mentre la stufa riprendeva il crepitio singhiozzato sul ciocco di larice. Quando anche il cane terminò di mangiare uscii su quella terrazza naturale su cui si affacciava il rifugio, feci un respiro corto e uno fondo, mi appoggiai allo stipite della porta e restai lì, incantato col naso all’insù, come se il cielo si fosse apparecchiato di stelle apposta per me, quasi come un regalo speciale. Il cane mi uggiolò una volta cercando col muso la mano. L’acqua non arrivava ancora.
Un rombo sordo mi fece voltare lo sguardo verso quella porzione di stelle dove la luce intermittente di un jet esibiva una rotta; anche il cielo notturno aveva perso la sua pace. Ma in ogni caso quel vago profilo di vette imbrillantate di stelle nella fitta trama nera di quella coperta di cielo mi lasciava sufficientemente estasiato da convincermi che quello fosse il mio posto… malgrado tutto. Il cane si accucciò ringhiando un attacco al pezzo di larice conquistato in legnaia. In quella serata dolce e tiepida i pensieri saltavano in sella a grande velocità: ne apparivano di belli, fantasiosi e positivi come di orrendi, tristi e grotteschi tanto da ritrovarmi con una risata in bocca o la fronte corrucciata. Alcuni pensieri erano misti a ricordi e fantasie che saettavano troppo rapidamente per essere fermati in un ricordo su cui soffermarsi; ma altri erano freschi e nitidi e riguardavano la realtà più prossima del mio essere, il mio passato e tutte le contraddizioni del presente. Pensavo e giocherellavo con un cordino che tenevo in tasca con le chiavi. Chi ero… che ci facevo lì, da quanto ero lassù? Quanti metri di dislivello facevo in un mese… e in un anno? Quanti in vent’anni ne avevo fatti, quanta montagna, quante stagioni, quante passioni, quanti incidenti, quanti amori, quante delusioni erano passati sopra e dentro di me?
Quante cose avevo preso, conosciuto e quante avevo perso? Dove mi ero fermato? Ero stato al passo coi tempi o ci andavo sbadatamente a… spasso?! Erano passati oltre vent’anni dal mio primo giorno da guardia – ne erano passati diciassette dal mio primo da Guida Escursionistica. Ero cambiato, o il resto del mondo aveva svoltato ed io non lo avevo visto? Quanto  poteva reggere un corpo umano con lo zaino su e giù per i sentieri delle Alpi? Alla neve e al gelo di quanti inverni? Alle albe e tramonti di quante estati? Il messaggio era sempre quello per gente come noi: «tu cammina, uomo, sei pagato per farlo quindi fallo! Cammina e osserva, osserva e cammina finché non ti lacrimano gli occhi, finché non ti reggono più le gambe…». Quante paia di scarponi mi avevano bruciato quelle pietre antiche e quante ancora me ne avrebbero bruciate? Negli ultimi mesi avevo forse preso distanza da alcuni fatti che mi riguardavano anche come Guida; era accaduto qualcosa di simile ad una formattazione del mio pensiero, o così pareva a me. Le e-mail che leggevo arrivavano ormai in forma ovattata… avevo una vista appannata nei confronti di alcuni argomenti che mi infastidivano tanto che dovevo costringermi a rileggere per afferrarne il senso, per poi infine non capire. Quante etichette l’uomo occidentale è capace di attaccare su di un concetto di per sé semplice chiamato ‘tempo libero’? In quanti modi necessita di raccontarsi sonore menzogne pur di giustificare un lavoro o un’attività che in passato era chiamato con un semplice termine? Quante nuove parole ‘pseudo inglesi’ camuffano un gesto semplice e naturale in una nuova disciplina? Di recente avevo letto di gente che camminava, un po’ in tutta Italia, facendo parte di associazioni, movimenti, club e organizzazioni di ogni tipo e con i nomi più strampalati. Mi aveva colpito che la rivista parlasse di un numero di camminatori sempre crescente, mentre per me, proprio avendo avuto l’estate a testimone, la gente a camminare in montagna era diminuita… Inoltre un fatto che mi aveva lasciato piuttosto disorientato era stata una codificazione del ‘camminare’. Ogni movimento o associazione ormai doveva enunciare metodi e tecniche su tutto; c’erano quelli che camminavano lenti, quelli che camminavano profondi, quelli che camminavano con i bastoncini, ma velocemente, quelli che correvano senza, ma lentamente.
Incuriosito e in parte anche divertito avevo poi visitato alcuni siti, dove avevo trovato un linguaggio che poco aveva a che fare col camminare. Ripensando al mio passato, piuttosto normale, ricordavo che a camminare mi aveva insegnato mia mamma, ad andare in bicicletta senza le rotelle mio padre, sciare e arrampicare mio fratello; ma non lo avevo mai scritto da nessuna parte. Sì, forse avevo pagato da bere dopo essere sceso la prima volta dal Gran Paradiso! Non riuscivo a capire perché con un gruppo più o meno numeroso di persone avrei dovuto camminare in silenzio o ‘consapevolmente’! Che voleva dire? E camminare in modo ‘responsabile’? Perché non avrei potuto mangiare carne se camminavo con alcuni? E perché avrei dovuto fare un certo tipo di ginnastica cinese o una meditazione indiana dopo aver camminato con altri? Io avevo sempre fatto stretching prima di dedicarmi ad una parete o prima di una discesa in neve fresca, però poi rientrato a casa mi cucinavo una bistecca e mi bevevo due bicchieri di rosso. Questo era sbagliato? Avevo sempre camminato quelle montagne da solo, parlando al cane, ma anche al camoscio o alla volpe – una volta ricordo che feci un discorso a una vipera – anche questo era sbagliato? Nel mio camminare, nel tempo, mi sono ritrovato a usare solo le gambe, come anche la canna o i bastoncini; dipendeva dal momento. Ho sempre avuto un passo lento e cadenzato, ma quando ho dovuto recuperare il capretto di stambecco nella gola del torrente avevo corso e anche saltato… avevo rischiato. Per me l’arte era sempre la stessa da quando l’uomo aveva raggiunto la postura eretta: sopravvivere mettendo un piede innanzi all’altro. Sì probabilmente era accaduto come sospettavo, il resto del mondo aveva svoltato ed io non me ne ero accorto: in effetti lo notavo nei fine settimana quando la montagna si affollava di gente delle piane e delle città, che diveniva popolo di camminatori, alpinisti, sciatori, merenderos, conoscitori… per 48 ore! E ogni cinque giorni vedevo quelle 48 ore cambiare, mutarsi in mille modi differenti. Vedevo le Alpi come un nuovo campo di battaglia dove c’erano sempre nuove… ‘armi’ da testare con soldati sempre più strani, facenti parte di tanti piccoli eserciti tutti forti del loro nuovo credo. Alcune pietre rotolarono a valle dal versante di fronte così da riportare il pensiero dove avevo lo sguardo. Il blu fondo del cielo continuava a raccontarmi la sua versione con i suoi mille occhi luccicanti, ormai era tempo da branda e da sonno. Forse domani sarebbe arrivata l’acqua…

Dario De Siena
Socio Aigae e Guardaparco

dario.desiena@libero.it

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 [1] Roccia levigata e striata dal movimento di avanzamento e arretramento del ghiacciaio fino a creare una rotondità uniforme e piuttosto vasta a forma di groppa di montone. Erano le rocce su cui giaceva il ghiacciaio. N.d.A.

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